Terapia farmacologica AD
La storia delle sperimentazioni farmacologiche mirate ad individuare una terapia per la demenza di Alzheimer (DA) è lunga oltre trenta anni. Il fondamento che ha indirizzato la ricerca è la cosiddetta ipotesi della cascata amiloidea, tuttora considerata parte integrante della ipotesi neuropatologica della degenerazione nella DA. Secondo questa teoria, esiste una stretta relazione temporale tra i due aggregati proteici anomali, placche di β amiloide (Aβ) e grovigli neurofibrillari di proteina tau iperfosforilata (NFT), che caratterizzano le alterazioni istopatologiche cerebrali patognomoniche di questa forma di demenza. La deposizione di peptide amiloide β (Aβ42), per motivi legati a abnorme produzione o ridotta degradazione, in aggregati insolubili fibrillari, rappresenterebbe l’evento centrale della progressione della alterazione neuropatologica caratteristica della patologia.
Le alterazioni patologiche sarebbero presenti a livello della corteccia cerebrale decadi prima che si manifesti la sintomatologia clinica cognitiva caratteristica della malattia. Secondo l’originale teoria, la patologia Aβ guiderebbe la patologia legata alla proteina tau, con una degenerazione che coinvolge inizialmente le aree cerebrali temporo-basali e fronto-mesiali e quindi diffonde alla rimanente neocorteccia, alla corteccia sensorimotoria e infine al corpo striato.
Più recenti evidenze descrivono tuttavia una disconnessione spaziale e temporale tra gli aspetti patologici cardinali della DA legati alle due proteine. Le alterazioni legate a patologia tau sarebbero presenti prima della patologia amiloidea, coinvolgendo le regioni temporali mesiali – ippocampo, amigdala, corteccia entorinale (aree olfattive) per estendersi successivamente a tutta la corteccia cerebrale, con una caratteristica diffusione che inizia dalle regioni limbiche e diffonde alla neocorteccia.
Tale alterazione cerebrale legata a tau sarebbe tuttavia caratterizzata in questa fase inziale da “benignità clinica”. Attualmente si ritiene che la degenerazione legata ai NFT di proteina tau iperfosforilata (stadi di Braak I–VI) sia quella che correla meglio con la progressione dei disturbi cognitivi. L’ordine con cui queste proteinopatie si instaurano e la loro relazione sinergica con la neurodegenerazione devono essere tuttavia ancora chiaramente compresi.
Diverse molecole sono state studiate alla ricerca di un farmaco che riuscisse ad interferire con la produzione e l’accumulo di Aβ e quindi contrastasse la progressione della malattia; fino ad oggi nessuna molecola ha mostrato efficacia clinica nel migliorare i disturbi cognitivi e la funzionalità delle persone con DA.
Le uniche categorie di farmaci disponibili attualmente, autorizzate dalle autorità regolatorie per il trattamento della DA sono rappresentate dagli Inibitori delle Colinesterasi (AChEI), quali donepezil, galantamina, rivastigmina, e dalla memantina, antagonista dei recettori NMDA del glutammato.
Il razionale della terapia con AChEI è fondato su una delle prime teorie che ipotizzano che una disfunzione dell’attività colinergica a livello cerebrale, legata al neurotrasmettitore acetilcolina (ACh), sia in relazione allo sviluppo di declino cognitivo nella DA. L’acetilcolina rappresenta uno dei più importanti neurotrasmettitori del sistema nervoso, sia centrale che periferico, fondamentale per memoria e apprendimento. Per tale ragione, si è ipotizzato che un farmaco con capacità di inibire l’enzima che degrada la ACh, consentendo di mantenere più alti i suoi livelli a livello cerebrale, avrebbe potuto migliorare la condizione cognitiva dei pazienti.
Oltre a ciò, l’evidenza che il malfunzionamento della neurotrasmissione glutammatergica, in particolare quella mediata dai recettori NMDA, contribuisca alla manifestazione dei sintomi cognitivi e alla progressione della neurodegenerazione, hanno supportato la sperimentazione e la successiva autorizzazione a utilizzo di memantina nella DA.
La memantina, grazie alla sua attività di antagonista di questi recettori del glutammato, ha la capacità di modulare gli effetti legati a livelli patologicamente elevati di questo neurotrasmettitore, che possono comportare disfunzione dei neuroni cerebrali, causando sovrastimolazione glutammatergica e neurotossicità.
Nessuno di questi farmaci ha tuttavia mostrato capacità di neuroprotezione, di poter cioè bloccare l’avanzamento della neurodegenerazione. Essi rappresentano un trattamento esclusivamente sintomatico, con miglioramento modesto dei sintomi cognitivi che caratterizzano la malattia (come misurato da scale quali ADAS-Cog, ADL, CDR), mantenendo un po' più a lungo le abilità funzionali quotidiane nel medio termine; nessuno di questi ha capacità di interferire con il decorso progressivo della degenerazione e del declino cognitivo. La loro efficacia e tollerabilità appare variabile tra le persone affette da DA che li assumono.
Si tratta di farmaci sottoposti a precisa regolazione di prescrizione.
I tre inibitori delle acetilcolinesterasi (AChEI) donepezil, galantamina e rivastigmina sono raccomandati in monoterapia per il trattamento della malattia di Alzheimer da lieve a moderata solo in seguito alla appropriata valutazione di un medico neurologo, geriatra o psichiatra con competenze specifiche. La prescrizione con rimborsabilità nel SSN può avvenire solo da parte di neurologi, geriatri e psichiatri che operino in Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze (CDCD) riconosciuti sul territorio nazionale.
Il trattamento in monoterapia con memantina rappresenta una opzione per persone con demenza di Alzheimer moderata che non tollerino il trattamento con AChEI o presentino controindicazioni allo stesso, e nella fase severa di malattia. La memantina può inoltre essere considerata in aggiunta a terapia con AChEI in caso di malattia moderata e grave a giudizio del medico esperto.
La tollerabilità e il dosaggio dei farmaci deve essere regolarmente rivalutato. I medici dei CDCD effettuano un regolare monitoraggio della persona che assume questi farmaci con il supporto del medico di medicina generale. Particolare attenzione viene posta a complicanze cardiache in particolare di tipo elettrico (richiesto monitoraggio dell’ECG per sviluppo di bradicardia, allungamento del QTc) e sintomi gastrointestinali legati alla azione colinergica (diarrea e nausea).
Allo stato attuale non esiste in commercio un farmaco capace di rallentare o bloccare la progressione di patologia. Negli USA è stata approvata da FDA per la rimborsabilità una molecola, lecanemab, in corso di valutazione anche da parte di EMA per l’Europa, appartenente alla categoria degli anticorpi monoclonali, che ha mostrato capacità di legare la Aβ in forma fibrillare. Nei trial controllati questa molecola si è mostrata efficace nel rimuovere le placche amiloidi a livello cerebrale, riducendo il carico di placche visibile mediante PET amiloidea. Il miglioramento della performance cognitiva, valutata mediante la scala CDR-SB, e della capacità funzionale è però apparso minimo, sottolineando la disconnessione tra carico di patologia cerebrale e sintomi clinici.