Aspetti etici nella gestione del paziente con demenza: il consenso informato
La perdita della capacità decisionale rappresenta una delle conseguenze più rilevanti del declino cognitivo nelle patologie neurologiche e psichiatriche, con tassi di prevalenza che variano dal 34% al 45%. La possibilità da parte del paziente con demenza di prendere decisioni è tuttavia fondamentale per mantenere adeguati livelli di autonomia nella vita quotidiana, per il suo benessere e senso di identità; inoltre, un paziente con demenza può mancare di auto-determinazione ma grazie all’aspetto emozionale, che si mantiene fin negli stadi più avanzati della malattia, può conservare capacità eticamente rilevanti, quali comunicare una preferenza, mantenere relazioni e alcuni livelli decisionali.
Un approccio etico e multidisciplinare alla gestione della demenza nella pratica clinica deve poter valorizzare tali capacità, seppure ridotte, soprattutto visto il crescente numero di anziani con potenziale deterioramento cognitivo. In una logica di eccessiva protezione da parte dei familiari, molti pazienti vengono spesso esclusi dalle decisioni, nonostante molti studi abbiano dimostrato come – soprattutto negli stadi lieve-moderato – possano ancora svolgere un ruolo attivo sulle questioni sanitarie, finanziarie e di fine vita.
Valutare la capacità dei pazienti con demenza ha una forte valenza etico-legale, in quanto collegata alla possibilità di compiere validamente atti giuridici. Le norme che regolano questo campo di indagine riflettono il dilemma del dibattito bioetico tra “protezione” del paziente da scelte potenzialmente dannose da un lato, e inviolabilità della scelta individuale dall’altro: dal momento che un giudizio di incapacità può portare a una significativa riduzione dei diritti dell’individuo, la determinazione della capacità è pertanto un campo di indagine particolarmente sensibile. Principi etici quali giustizia, beneficialità, non maleficenza e autonomia sono un punto di riferimento nella pianificazione terapeutica, nelle decisioni sul fine vita, nel contesto della sperimentazione clinica e in tutti quei casi nei quali il paziente non ha la possibilità di comprendere i rischi e i benefici di un trattamento.
Il progressivo invecchiamento della popolazione e il contestuale aumento di prevalenza della demenza hanno visto aumentare le richieste di accertamento della capacità decisionale anche sull’anziano sano, tanto da diventare prassi frequente nell’attività clinica. Se da un lato è vero che l’invecchiamento fisiologico può associarsi ad un declino della sfera cognitiva – suscettibile a sua volta di influenzare abilità funzionali quali la velocità di elaborare le informazioni, la memoria di lavoro e le funzioni esecutive – è altrettanto vero che non è di per sé sufficiente a causare incapacità, a meno che la co-presenza di limitazioni sensoriali, l’isolamento sociale, i disturbi dell’umore e la dipendenza emotiva non renda la persona anziana vulnerabile allo sfruttamento economico e all’abuso. Va quindi tenuto presente che il passaggio dalla piena capacità decisionale all’incapacità è, sì, legato ad una progressiva perdita delle capacità cognitive, ma tranne casi limite (coma, demenza avanzata, grave ritardo mentale) la capacità va sempre presunta: una diagnosi di demenza non è sufficiente a confutare la presunzione di capacità decisionale, ma rappresenta solo un fattore di rischio per l’alterazione della capacità stessa.
La determinazione della capacità è essenziale ai fini del consenso informato, cioè della libera e volontaria scelta di un trattamento sanitario da parte del paziente. Nell’ultimo decennio questo problema ha occupato un ruolo di primo piano all’interno del dibattito bioetico. Nell’esigenza di garantire il diritto all’autodeterminazione, anche in presenza di ridotta capacità cognitiva, il Mental Capacity Act (2005) ha stabilito che il paziente deve essere adeguatamente supportato nell’esprimere le capacità decisionali residue. Ove tali capacità residuali risultino assenti – generalmente negli stadi avanzati della malattia - l’ordinamento italiano ha introdotto alcune norme che consentono di delegare specifiche aree decisionali ad un Amministratore di Sostegno o ad un Fiduciario.
Le procedure standard per ottenere il consenso informato hanno avuto a lungo come base il concetto di consenso semplice, presunto se il paziente non fornisce un esplicito dissenso. La loro evoluzione ha portato agli attuali concetti di auto-determinazione e autonomia del paziente, di alleanza terapeutica e di reciproco rispetto, ma risentono a tutt’oggi di una carenza di standardizzazione nella pratica clinica. Vi sono tuttora opinioni discordi su quel che si intende per consenso informato, spesso inteso come una mera formalità, un documento da far firmare al paziente; i moduli di consenso sono peraltro densi di informazioni, e contengono parole poco familiari per i pazienti con un livello di scolarità medio-basso, traducendosi di fatto in documenti incomprensibili. Va tenuto presente che l’ottenimento del consenso informato non si esaurisce in un momento puntuale, ma va visto in divenire e basato sulla continua interazione medico-paziente, e che la comunicazione delle informazioni prevista dalla legge deve procedere con l’evolversi delle condizioni cliniche del paziente, integrandosi di nuove informazioni e consigli.
Comunicazione della diagnosi e consapevolezza
La comunicazione della diagnosi di demenza è un momento cruciale, che deve prevedere il delicato coinvolgimento del paziente e dei suoi caregiver e/o familiari.
Il gravoso impegno emotivo che investe nel medico, conscio che non esistano allo stato attuale trattamenti risolutivi, e consapevole del delicato percorso diagnostico che il paziente si trova ad affrontare, così come il timore di reazioni emotive avverse da parte del paziente e della sua famiglia, spesso ritardano questa comunicazione sino a fasi del declino cognitivo in cui l’insight, la consapevolezza del paziente, si è ridotta drasticamente.
Da un sondaggio dell’Alzheimer Europe è risultato come solo il 50% delle diagnosi è comunicata direttamente ai pazienti, e sino al 20% dei casi, non viene comunicata neanche nelle fasi più lievi di patologia; in contrasto, molti studi mostrano una riduzione dell’ansia e dell’incertezza dei pazienti dopo un’efficace comunicazione, e una generale preferenza nell’essere informati circa la propria condizione.
Una comunicazione di diagnosi adattata alle capacità cognitive residue del paziente, al suo status intellettivo e alla sua emotività, coinvolgendo familiari autorizzati, ha infatti quasi sempre un ruolo benefico e non sembra essere associata a un maggior rischio di eventi avversi (es. comparsa/ aggravamento di sintomi depressivi o gravi incidenti).
Questa permette di aumentare il senso di auto-efficacia nella gestione della malattia, di beneficiare, soprattutto nelle fasi iniziali, di terapie modulatrici e di un cambio dello stile di vita, di accedere a supporti psicologici e servizi territoriali (es. centri diurni).
Una pronta comunicazione della diagnosi permette, inoltre, di esprimere in anticipo il consenso informato ed eventualmente di predisporre disposizioni anticipate di trattamento, così come di assumere in tempo decisioni su questioni personali e patrimoniali.
quando non siamo consapevoli di avere un problema, non c’è da parte nostra alcuna volontà di muoverci per combattere tale deficit o cambiare la realtà che ci circonda
L’anosognosia, ossia l’incapacità di riconoscere il proprio deficit motorio, cognitivo o intellettivo, varia sostanzialmente nelle varie fasi di malattia ed è generalmente legato alla gravità di malattia; nel Mild Cognitive Impairment e nella Demenza lieve il grado di insight è spesso adeguato e un’appropriata comunicazione di diagnosi può indurre una modifica positiva negli stili di vita (alimentazione, esercizio mentale e fisico) e talora una più lenta progressione o parziale miglioramento dei sintomi (Petersen 2018).