Falso – L’allarme è scaturito nel 2015 dopo la pubblicazione di una lettera di alcuni ricercatori sulla rivista Nature, nella quale si sottolineava la presenza, nella materia grigia e nelle pareti dei vasi sanguigni, di alcuni soggetti sottoposti a studio e deceduti per malattia di Creutzfeldt-Jakob (il cosiddetto morbo della "mucca pazza"), di placche della proteina beta-amiloide, uno dei segni tipici dell'Alzheimer. L'elemento che aveva fatto dedurre la possibilità di insorgenza di demenza a seguito di un contagio, era stato il fatto che tutti i pazienti in passato si erano sottoposti alla somministrazione di un ormone della crescita. Questa semplice osservazione ripresa e rielaborata in modo decisamente sensazionalistico dai media, è stata fortemente smentita dalla comunità scientifica tutta, che ha ribadito come l'Alzheimer non si possa contrarre per contagio.
Solo in una minoranza di casi (non superiore al 5%), la malattia di Alzheimer ha un’origine genetica con esordio più frequente in età presenile (prima dei 60-65 anni). Nella maggior parte dei casi la malattia si presenta in forma sporadica, cioè senza ereditarietà tra le generazioni di una famiglia, e ha un esordio dopo i 65 anni. Nel 60% delle forme a esordio precoce la malattia compare in due o più persone appartenenti alla stessa famiglia; tali forme sono denominate familiari. Di queste solo il 13% è causato dalla presenza di una mutazione genetica ed è trasmesso con modalità autosomico dominante (ogni successore di un soggetto portatore della mutazione ha il 50% di probabilità di ereditarla) con alta penetranza.
Fortunatamente, si tratta di una bufala messa in circolazione da un medico statunitense poi radiato dall'ordine. In realtà, diversi studi (https://www.cmaj.ca/content/165/11/1495.full?eaf e https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/15523069/, per esempio) hanno collegato il vaccino per l'influenza e altre vaccinazioni a un rischio ridotto di contrarre la malattia e a un miglior stato di salute generale.
Il collegamento tra alluminio e Alzheimer è stato ipotizzato per la prima volta negli anni sessanta. Da allora, però, diversi studi hanno smentito ogni correlazione o, per lo meno, non hanno trovato alcuna prova definita che la dimostri.
Sebbene alcuni studi abbiano mostrato che la malattia sia leggermente più comune tra persone che hanno subito un forte trauma cerebrale (accompagnato da perdita di conoscenza), è necessaria una ricerca più approfondita per tracciare una correlazione diretta e capire cosa succeda esattamente al cervello dopo tali traumi.
L'età è il più grande fattore di rischio. Ma questo non vuol dire che tutti sviluppino la malattia in età avanzata. Alcune persone si sono ammalate tra quaranta e cinquant'anni ma quello che è importante comprendere è che non fa parte del normale processo di invecchiamento.
Purtroppo no: al momento non esiste alcuna cura. Tuttavia, alcuni pazienti possono gestire i sintomi e migliorare la qualità di vita con farmaci che stabilizzano temporaneamente la memoria e le abilità cognitive (la Food and Drug Administration statunitense ne ha approvati quattro). La buona notizia è che la ricerca sta facendo grandi passi in avanti – alcune molecole, attualmente in fase di test clinici, si sono mostrate in grado di agire direttamente contro il processo neurodegenerativo della malattia.
Sebbene molte persone abbiano problemi di memoria, questo non vuol necessariamente dire che abbiano l'Alzheimer. Nel momento in cui i deficit di memoria inficiano la vita quotidiana e sono abbinati a problemi cognitivi o di comunicazione, la cosa migliore da fare è rivolgersi a un neurologo per scoprire le cause dei sintomi.
Nelle fasi precoci di malattia sono frequenti una riduzione di interessi e sintomi di depressione e ansia. Nella maggioranza dei pazienti si assiste ad una esacerbazione di alcune prerogative del carattere del paziente, presenti quindi anche prima della malattia; una minoranza dei pazienti modifica invece drasticamente la propria personalità: si tratta di uno dei sintomi che causano maggiori difficoltà ai familiari.
Non è vero, ma spesso il comportamento troppo coercitivo e impositivo dei familiari può scatenare reazioni eccessive di difesa: analoghe reazioni possono manifestarsi nei pazienti se hanno paura o si sentono spaventati da qualcosa che non sono in grado di comprendere. Un altro comportamento dei familiari che può provocare agitazione e aggressività, è quello di trattare il malato come se avesse tutte le sue capacità intatte, costringendolo a compiti o a conversazioni al di là delle sue possibilità, determinando così una situazione per lui frustrante; se l’aggressività era presente nel carattere del malato, con l’avvento della demenza questo sintomo può accentuarsi.